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Fabio Mauri
“Ebrea”
1971



Ottobre 1971, Venezia. Fabio Mauri (1926 – 2009) presenta per la prima volta una performance destinata a passare alla storia come una delle sue opere maggiori: Ebrea. Realizzata per una personale dell’artista curata da Furio Colombo e Renato Barilli alla Galleria Barozzi (Venezia), Ebrea è una performance radicale, in cui l’elemento del male viene indagato nella sua continuità e, per la prima volta, nella sua eredità.

La performance si svolge all’interno di un’installazione realizzata con una serie di oggetti prelevati dal quotidiano: utensili, complementi d’arredo, saponette, sci, finiture per cavalli che Mauri ha prodotto immergendosi nella terribile industria nazista che utilizzava parti umane dei deportati ebrei. Come orrifiche reliquie, i diversi manufatti diventano materializzazioni del male. In questo ambiente così evocativo entra in scena una ragazza, senza abiti e con una stella di David tracciata sul petto. Specchiandosi, la ragazza taglia alcune ciocche dei propri capelli, per attaccarle poi lentamente allo specchio e formare così una seconda stella di David.

L’ esplicito riferimento alla tragedia dell’Olocausto e alla memoria dei campi di concentramento nazisti è un punto di partenza importante per una calibrata e più ampia riflessione. Mauri intende infatti indagare il razzismo come fenomeno universale, prendendo come esempio supremo l’antisemitismo che ha trovato il culmine negli anni ’40 del Novecento. L’artista, adolescente in questo drammatico periodo, non poteva che rimanerne segnato. Ma quello contro la comunità ebraica è solo uno dei tanti volti di una discriminazione che cambia forma, ma rimane sostanzialmente uguale. È in questo senso che Fabio Mauri riscontra in ogni tipo di razzismo la stessa matrice di quello nazista, le cui radici non smettono di alimentare germogli sempre nuovi.

Mi sento ebreo ogni volta che posso e patisco ingiusta discriminazione, e patisco discriminazione”. Così l’artista, pur non essendo ebreo né figlio di ebrei, racconta la sua vicinanza a un popolo divenuto suo malgrado simbolo delle conseguenze dell’odio. Mauri assume la prospettiva di chi, osservandosi nello specchio, è costretto a osservare ogni giorno gli irragionevoli motivi della propria discriminazione; ed è così che riflette e si riflette la ragazza di Ebrea, con il simbolo della sua gente che da stendardo di orgoglio è stato trasformato in marchio di vergogna.

La mostra “Fabio Mauri. Opere dall’Apocalisse”, realizzata da Viasaterna in collaborazione con Studio Fabio Mauri e Hauser & Wirth, presenta una fotografia della performance originale del 1971, scattata da Elisabetta Catalano, a lungo compagna di lavoro e di vita dell’artista. Il forte contrasto del bianco e nero, così come la silhouette della ragazza che si staglia nel vuoto, donano a questa fotografia un pathos e una drammaticità unica e fondamentale. Scrive la curatrice della mostra Francesca Alfano Miglietti: “Autore di una personalissima indagine, durata tutta la vita, sull’insidiosa logica dell’arte, dell’ideologia e del totalitarismo, Mauri esplora la Storia filtrandola attraverso la lente del privato”. E ancora: “Mauri non indietreggia mai, ma si attesta tra le pieghe di una linea che silenziosamente tocca l’interdetto, il proibito”.

Sono passati ormai cinquant’anni dalla prima realizzazione di Ebrea, eppure risulta ancora attuale: il razzismo e, più in generale, la discriminazione sono temi estremamente vivi nella nostra società e, purtroppo, ancora strumentalizzati a fini politici e propagandistici. Qui si cela la grandezza di un’artista e l’efficacia di un’opera d’arte: nella capacità di indagare contemporaneamente il passato, il presente ed il futuro.

Alberto Villa



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